Lapisvedese

Munus habens

Posted in #10 Comune by Lapisvedese on 3 agosto 2011

C’era una volta il comune. Anzi, una volta c’era “la” comune, differenza di genere che forse meglio rimandava ai concetti che stavano alla base della nuova concezione di vita cittadina (o più semplicemente sociale) diffusi da quell’esaltante contagio che fu la Rivoluzione Francese. La Comune era principalmente la “cosa” in senso latino affine a “cosa” pubblica (res-publica), ma anche “casa” comune, con un di più di fratellanza che non guasta mai (fraternité era infatti una delle parole-simbolo dell’epoca). Notevole il fatto che una migrazione di genere abbia colpito anche un altro termine molto usato in epoca rivoluzionaria, trasportando i cittadini dalla municipalità di allora al municipio di oggi. Cosa accomuna (il bisticcio o gioco è qui che ci guarda e fa le fusa) i due termini di comune e municipio? La radice latina munus, che significa “incarico”, “servizio”, ma originariamente e più semplicemente “dono”. Oggi sarebbe bene rivalutare e rifondare il senso pieno, e con esso, appunto, la coscienza (cum-scientia) di questo scambio di doni che tutti noi ci facciamo ogni giorno. Dono che inevitabilmente lega; legame che viene da alcuni rifiutato, sottaciuto o ignorato dai più; più che vivono spesso quel dono come un credito aperto nei confronti del prossimo piuttosto che come impegno, come “intrapresa”, come atto di acquisto di un’azione dell’unica vera impresa che conti, quella sociale.
Il munus è dunque un pezzo di noi che vogliamo mettere vicino a quello altrui, e questi pezzi vogliamo combinarli, ibridarli per costruirne, oltre che una serie di oggetti (edifici, infrastrutture), una struttura fatta di usi, regole e convenzioni che ci aiutino a dare «un senso a questa storia», perché questa storia un senso ce l’ha. Solo che il munus, lentamente, cambia: viene ridefinito, aggiornato, perché non si tratta solo di un elemento simbolico, è anche concreto.
La prima e più banale definizione del termine è economica: a ogni comunità i partecipanti conferiscono una parte dei loro profitti. Questo è l’ambito nel quale la perversione del “credito aperto” di cui si diceva prima si espande con maggiore virulenza, specie dove di ricchezza ce n’è; l’ovvio corollario, in questi casi, è che dalla coscienza della necessità del munus per la costruzione comune si passa velocemente alla volontà di non conferire, se ci si convince che quel credito è costantemente mal (o per nulla) ripagato.
Ora, costruire per e nella società ha senso solo se lo si fa in ottica di condivisione (non di partecipazione azionaria): si costruisce qualcosa che serve a tutti e che è a disposizione di tutti, anche di chi non è un azionista (altrimenti che si farebbe dei neonati o dei forestieri? Attenzione: in una società fatta di legami, un forestiero è un neonato. Dovremmo dedicargli l’amore che istintivamente riserviamo a un neonato).
Ecco svelarsi che il vero munus è pertanto l’atto di conferire e il lavoro di costruire, non l’oggetto economico, che è solo uno strumento di lavoro, che resterebbe inattivo e del tutto inutile senza la volontà di esserci. Questo rivela a sua volta che un credito basato sulla quantità economica conferita è non solo fondamentalmente errato dal punto di vista etico e sociale, ma soprattutto vano, ipocrita, in quanto incompleto (massimamente, poi, se l’incompletezza è voluta e cosciente). Il munus è contemporaneamente l’atto di partecipazione (prendere parte, letteralmente) e l’oggetto costruito.
L’oggetto può essere l’edificio municipale, le strade, l’illuminazione, lo statuto, le norme locali, la guardia alle mura, la copertura per il mercato, la pesa dei grani (a chi legge, l’esercizio di tradurre in oggi questo ieri, frutto del vezzo personale e dell’ambito lavorativo di chi scrive). Norme, oggetti, servizi. Tra questi, alcuni sono fondamentali e lo sono in quanto fondamento e definizione del legame, in quanto definizione (indiretta?) del soggetto. Lo statuto dice chi siamo e cosa “mettiamo in comune”.
Ecco, cosa mettiamo in questo comune? Evidentemente le cose che hanno a che fare in modo diretto con la nostra sopravvivenza quotidiana. L’acqua è senza alcun dubbio uno dei primi elementi a venire alla mente, perché apre le porte non solo alla sopravvivenza, ma anche alla sua qualità, ad esempio attraverso la preparazione dei pasti e la cura dell’igiene personale, entrambi elementi che direttamente incidono e hanno inciso sulle aspettative di vita delle persone nei secoli.
Quello che ancora non abbiamo detto è che questo munus non viene conferito una volta per tutte; va rinnovato continuamente, perché si consuma, perché – come detto – muta e perché la sua riaffermazione serve a rinsaldare il legame, visto che non siamo fatti solo di regole ed edifici, ma anche di sentimenti, e un legame senza sentimento è inevitabilmente percepito come una costrizione.
L’emozione che ha attraversato tanti di noi nel momento in cui è stato chiaro che i referendum sull’acqua sui quali si è votato pochi giorni fa avrebbero raggiunto il quorum è stato il riaffiorare, e anzi l’esplodere prepotente, di quel sentimento. I cittadini, aiutati da altri cittadini, hanno riscoperto il valore di quel bene comune, la sua centralità nella propria vita, hanno deciso che comune (cioè condivisa, cioè pubblica) deve restare la modalità con cui lo si gestisce e che a nessuno è lecito fare profitto su quel munus. Hanno ripreso coscienza del fatto che ciò che quotidianamente conferiscono e ridistribuiscono e condividono è il diritto stesso. Il diritto all’acqua così come il diritto di decidere, di essere informati, di dare un orientamento alle regole (e di non subirne altre che nulla hanno a che fare con l’etica sociale). L’emozione è stata di riscoprire (quasi uno scavo archeologico, ormai) che quel legame esiste e ci connette ancora e che è praticabile, cioè lo si può ripercorrere come un filo di lana per tornare in contatto gli uni con gli altri e, insieme, decidere.
Il munus principale, però, come si diceva prima, è l’atto volontario. Cioè, in parole povere (ricche, perché depurate da costrizioni visuali economicistiche), l’impegno. Quando conferisco il mio munus (soldi, tempo, lavoro, diritto) e lo connetto a quello degli altri devo sapere ciò che faccio (coscienza civile e sociale), devo volerlo fare (coesione sociale) e soprattutto devo impegnarmi perché quel dono sia effettivamente, realmente esigibile da tutti. L’emozione di questa nuova fase, che il popolo dell’acqua in Italia riassume in «Si scrive acqua e si legge democrazia», sta proprio nell’aver fatto risgorgare dalle fosse carsiche in cui il mercato l’aveva inabissata la disponibilità all’impegno, la coscienza della sua necessità, la gioia di condividerlo. Questo impegno va coltivato con amore, perché ci servirà a illuminare questo bel percorso che abbiamo saputo aprire davanti a noi, in una prospettiva comune di costruzione di una società dove si pensi molto più al come che al quanto.

GC

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