Lapisvedese

Quando il segno = 0

Posted in #10 Comune by Lapisvedese on 5 agosto 2011

Scrivere a dieci metri da terra. Non è facile cominciare da qui, sospeso per aria, seduto su un albero morto da più di trent’anni, credendo di trovarmi davvero sulla terra. Sulla superficie del mio mondo. Fin quando non varco il limite dell’atmosfera terrestre – mi si dirà – mi trovo effettivamente su questo pianeta. E proprio sapere che il mio organismo non reggerebbe neanche mezzo minuto in nessun altro luogo con condizioni diverse da queste dovrebbe farmi pensare. Sono fatto per vivere qui, nessuna smania evasiva potrà mai sputarmi fuori da “casa” mia. Sono plasmato degli stessi ingredienti – da qualcuno [Maurice Merleau-Ponty] chiamati chair (carne) – della Natura. Direi proprio che sono fatto della stessa materia se questo non comportasse una riduzione in termini dell’estrema complessità del nostro fungere esistenziale. Allora dirò che sono di una materia complessa che non mi riesce di spiegare. Ché è materia vitale, quella per la quale la mia mano si muove da sinistra a destra incidendo su un pezzetto di carta simboli apparentemente inermi. Se sapessi spiegarvi cosa sta dietro a questa meravigliosa materia complessa, cosa la rende viva, non mi rimarrebbe curiosità alcuna. Perderei il gusto. E poi qui si presenterebbe un problema analogo, che è un problema infinito: dopo aver svelato (o forgiato, per quanto riguarda il pensiero umano) la causa vorrei conoscere la causa della causa e così senza fine. E giacché io non sono un dispensatore di principi, ma solo uno stupido scettico, o meglio, un inguaribile critico, non mi azzarderei a spiegarvi qualcosa di inspiegabile, e anche se fosse spiegabile non mi accontenterei della sua spiegabilità, nuotando oltre, nelle sue profondità abissali – perdendomi ineluttabilmente.
Sia chiaro, c’è anche un motivo pratico per cui mai potrei conformarmi a un principio regolatore assoluto (di quelli proposti fin qui dall’umanità). Perché potrei mostrarvi tutte le contraddizioni che ingombrarono la Storia dell’uomo, le assurdità compiute in nome della razionalità, le più scabrose efferatezze in nome della bontà infinita. Per non parlare poi di Dio. Qui mi astengo e vado avanti a discorrere sull’uomo e il mondo. Di quel poco che so dell’uno (essendo io tale) e dell’altro (facendone parte). Conosco il mio mondo più o meno come conosco la mia casa. Potenzialmente potrei conoscerne ogni angolo, ma non ne conosco né l’architetto né i muratori che la costruirono più di mezzo secolo fa. Con la differenza che se questi fossero ancora vivi potrei conservare dentro me una piccola speranza oggettiva di rintracciarli. Mentre per l’architetto del mondo conviene che – prima di entrare in questo – abbandoni ogni speranza. Tutto ciò per dire cosa? Per dire che non esiste una contrapposizione tra l’animale uomo e ciò che lo circonda. Per ciò che lo circonda non intendo il telefonino o il microonde, ma appunto la Natura: quelle cose che noi chiamiamo cielo, mare, animali, foreste, rocce. Certo, anche la Tecnica umana non può non essere intesa come una sorta di continuazione dell’attività naturale e quindi un po’ forzatamente direi che anche il telefonino e il microonde sono Natura. Ma una Natura senz’altro diversa da quella che ci sostiene dal basso, diversa dal nostro suolo. Nessuno mai ci autorizzò a pensare che potesse essere atto distintivo dell’uomo (certo ormai lo è diventato) questo infierire sulla materia naturale interpretandola come esistenza informe – o perlomeno avente forme meno degne rispetto a quelle umane – a nostra totale e inesauribile disposizione. Viviamo in un mondo sovrannaturale, artificiale, così oggettivamente umanizzato dall’apparirmi totalmente disumano. E questo mondo così disumano sarebbe il nostro mondo incrollabile. Fatto così perché deve essere fatto così, perché lo abbiamo sempre visto così. Perché immagino che nessuno di voi si chieda mai se abbia un senso scrivere sospeso a dieci metri da terra seduto su albero morto da più di trent’anni in un’accademia dove la maggior parte delle idee che girovagano sono marce anche se dal fascino inestimabile.
E se noi, invece che esserne i legislatori o i dominatori, fossimo la Natura stessa? Senza scomodare alcun senso panteistico o divino risultare semplicemente come particolari manifestazioni di Essa? In noi si esprime questa unica vitale materia complessa che condividiamo con il mondo. Senza il mondo noi non potremmo essere e senza di noi il mondo non sarebbe, e anche se fosse noi non essendoci non potremmo saperlo. Il problema è demolito. Il legame sostanziale indissolubile che ci fonde con la Natura non può essere messo in dubbio. Ma non è sufficiente constatare la diagnosi del distacco spirituale tra uomo e Natura e relegare questo problema alla filosofia studiata nelle accademie puzzolenti. Questa riflessione può solo essere il punto di partenza per un conseguente nostro ridimensionamento – parziale o totale, graduale o immediato che sia. Dobbiamo abbattere tutti i pregiudizi, anche quelli più incarnati e apparentemente innocui, che millantano quest’orribile surrogato di mondo per il nostro vero mondo naturale. Non voglio riesumare il mito del “buon selvaggio” rousseauviano. Non avrebbe alcun senso. Quel che è stato fatto ormai è stato fatto e non si può tornare indietro per rimediare. Ma ciò che siamo chiamati a fare – e l’argomento è più attuale che mai – è ripensare il nostro rapporto con la Natura, perché se si può parlare di un bene comune è proprio questo. Il bene non nasce dall’idea di Dio o da qualsiasi altro principio che ci irradia dall’alto. Il bene nasce dalla condivisione, dalla consapevolezza di questa condivisione. E cos’è ciò che gli uomini sono “condannati” a condividere ai fini della loro stessa vita? Il mondo, la Natura. Lo spazio di questo mondo è di tutti e guarda tutti indifferentemente, nel senso che accoglie, ingloba dentro sé tutti i suoi esseri allo stesso modo. Il fatto che oggi qualcuno possa comprarsi una grande fetta di spazio di questo mondo con tanti pezzettini di carta colorata è un altro discorso. In realtà la Natura appartiene a tutti e nostro dovere e appagamento è riconoscere – per utilizzare un termine di Albert Camus – la misura originaria che vige dentro di noi, che ci mantiene in perfetto equilibrio con il mondo e con gli altri esseri. La condivisione degli uomini di questa misura propria crea la positività, alimenta in qualche modo il bene spingendo gli uomini al desiderio di perpetuità dell’equilibrio nella coesistenza. Ma la misura per esistere deve relazionarsi con la dismisura. E sembra proprio che sia stata quest’ultima, secondo Camus, a prendere le redini delle atrocità compiute nel XX secolo, a correre dietro a principi illusori per dimenticarsi dell’unica realtà a noi fedele, la terra. Dunque, anche imparando dagli errori, dobbiamo necessariamente impegnarci a salvaguardare il nostro suolo, a risacralizzare il nostro rapporto vitale con il mondo. Non considerare la Natura solo come il luogo della nostra villeggiatura estiva ma come la “forma” che ci permette di esprimerci. Solo questo, secondo me, può essere considerato il nostro bene comune. L’unico bene per il quale “combatterei”.

SS

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