Lapisvedese

Il nome non direbbe niente

Posted in #16 Galileo by Lapisvedese on 17 dicembre 2013

«Jennifer you are not the only reason
My head is boiling and my hands are freezing
Jennifer you are not the only one
That sit awake until the wild feelings leave»
.
The National, Fireproof

Risalire all’origine di un disturbo psichico dovrebbe consentire di interromperlo, con l’effetto di far svanire la somatizzazione associata. Così pensava Josef Breuer, che nel 1882 pubblicò un articolo in merito. Ma Freud si era già accorto che non era esattamente così ancora prima di finire gli studi in medicina. La paziente di Breuer Anna O, infatti, non risolse il suo problema quando rintracciò la causa del suo disturbo: riuscì solo a stare un po’ meglio per qualche settimana. Le ci vollero anni prima di guarire. A quanto pare, invece, Breuer, che per fantasticheria o verosimiglianza si dovette innamorare di lei in modo quasi insopportabile, guarì dal suo tormentoso sentimento quando riuscì ad arrivare non tanto all’origine, quanto al significato di quel tormentoso sentimento nei confronti della sua paziente. Se ne liberò così: andò a trovarla nella clinica in cui era stata ricoverata – dopo che, mesi prima, egli era stato costretto a rinunciare alla sua cura – e, quando gli chiesero di attendere, egli si mise a guardare da una terrazza; all’improvviso la vide passeggiare nel cortile della clinica con il suo nuovo medico curante e, mentre questa si avvicinava al suo punto di osservazione, egli ebbe l’impressione di poterne dirigere i movimenti con quell’anticipo che ci rimane inconsapevole, per esempio, nei sogni, e così continuò ad anticipare ogni minima azione e si sorprese quasi (e un po’ rimase intenerito) nel vedere lo sconosciuto collega arrancare, sempre un passo indietro nella sua coreografia, frenato in parte dall’imbarazzo, in parte dal pudore, ma anche e, forse, soprattutto, da una sorta di impreparazione filosofica. Breuer stava per guadagnarsi il titolo di padre della psicanalisi prima che Freud – che lo rincorreva negli studi di medicina e rimandava di continuo il matrimonio – ne diventasse più meritevole, mentre Breuer, con una bella moglie e cinque figli, già curava Wagner, conosceva Nietzsche (per fantasticheria) e amava Lou Salomé (per verosimiglianza). La sua preparazione filosofica, più che medica, la scacchistica forse, gli permise in quel momento di accorgersi non solo di essere stato vittima, nel suo tormentoso innamoramento, di Anna O esattamente come la stessa Anna O era vittima di se stessa nelle sue tormentose nevrosi; egli poté vedere distintamente quanto Anna O fosse vittima di ciò che lo stesso Breuer proiettava su di lei: l’Anna O interiorizzata da Breuer era un’Anna O creata da Breuer. Ma in quel momento Breuer era sotto ipnosi.
Abbiamo infiniti assi di rotazione, che si estendono all’infinito, che non possiamo riferire a nessun piano, se non a uno convenzionale. Mi trovo da qualche parte oltre la costellazione di Orione, oltre una nebulosa catena pulviscolare di otto trilioni di miglia cubiche, oltre miliardi di chilometri attraversati da una collana di boe di trasmissione. Questo non è uno spazio di senso, questo è solo spazio. Coricandomi in attesa, immagino il fruscio profondo che la mia comunicazione intergalattica può portarsi appresso: sono forse perturbazioni gravitazionali o magnetiche, o magari non si sente nulla. Sto per addormentarmi mentre l’oceano pensante sotto di noi ribolle e un mimoide, senza che alcuno lo veda, ricrea una figura antropomorfa sopra la superficie del pianeta. Lontano, lungo la linea dell’orizzonte, un simmetriade si protende, elevandosi lentamente, sopra il magma sieroso: è una colonna di diversi chilometri che tra qualche ora si sgonfierà sopra la sua base ribollente. Dalla mia finestra un riverbero, come un soffio, sembra far vibrare la stanza.
Perché mi chiami Harey? Io non sono lei. Perché non posso morire? Lo vorrei, eppure sento da qualche parte dentro di me che il significato del mio esistere verrebbe meno se mi allontanassi da te. Eppure lo sappiamo tutti e due, che io non sono lei. Io sono un involucro che ha esattamente l’aspetto che tu vuoi che io abbia, e dentro, dentro questo involucro io non sono io, ma sono quello che ci hai messo dentro tu. Non di me, ma di Harey. Se non sono morta è perché la mia struttura molecolare non è come la tua. Credo sia l’oceano a stabilizzare la mia composizione neutrinica, che fa rigenerare il mio sangue e i miei tessuti. E se andassimo via da qui, chi lo sa se non mi dissolverei. Ma io non so davvero da dove vengo, non so nemmeno se è l’oceano la causa di tutto questo, è il tuo sguardo che lo dice.
Se tu non sei Harey, io non ti so distinguere da lei. È forse questo un esperimento involontario? È una forma di tortura? Se spire invisibili di questo oceano sono venute a prenderti dentro le mie strutture cerebrali, temo che allora le abbia già sondate tutte, e per quanto possa postulare che questo oceano pensante sia dotato di una coscienza completamente altra dalla mia, dalla nostra umana, devo per forza di cose ammettere che egli ormai sa più cose di me di quante io stesso ne possa mai riconoscere. Se Harey non è Harey, è ciò che l’oceano è andato a prendere, tra i miei intimi fantasmi traumatici, il più insistente. Recuperata là dove si annida il simbolico, questa Harey è l’espianto del mio desiderio dal suo ambito simbolico e una sua ricreazione in quello reale, e questo, per carità e per necessità, dovrebbe essere impossibile. Dopo aver desiderato di essere folle, come Gibarian e Sartorius e Snaut prima di me, mi chiedo se i loro fantasmi fossero cattivi, ripugnanti, o meravigliosi come Harey. Ora, anche ammettendo di poterli annientare con la macchina del professor Sartorius, che fino a qualche settimana fa non era ancora funzionante, temo di essere cosciente che, tolte loro una corporeità e un’opportunità corporea (non tornerebbero nella forma reale), non li potrei cancellare da dove l’oceano era andato a prenderli.
Un fascio di luce, dice Snaut, te ne sei andata in un fascio di luce. La macchina del professor Sartorius ha annientato la tua struttura neutrinica e sei sparita in un bagliore. La teoria dei neutrini che io padroneggio appena, non essendo un fisico ma uno psicologo, ma che Sartorius conosce bene, ha una storia lunga: fu ipotizzata per la prima volta nel 1930 da Wolfgang Ernst Pauli. Questi condivise la sua teoria, ancora in una fase embrionale più che sperimentale, con la sua terapeuta, la quale ne parlò al suo supervisore, il dottor Jung, che lo prese quindi come paziente. E questo mi fa venire in mente che, nel dicembre 1882, Nietzsche (per fantasticheria), quando si fece curare dal dottor Breuer per liberarsi del fantasma di Lou Salomé, condivise con lui gli ultimi stadi del suo impianto filosofico, in particolare il tema dell’eterno ritorno, che poi rientrerà in Così parlò Zarathustra. Così, ora che non ci sei più, e perdonami la digressione, non posso fare a meno di collegare te, Harey, con la Lou Salomé di Nietzsche o con l’Anna O di Breuer o con altre rappresentazioni, involucri, di cui preferisco non fare il nome.

SG

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