Lapisvedese

Delirio della soglia

Posted in #14 Citofono, Antipasti e spuntini by Lapisvedese on 24 ottobre 2012

Suonano alla porta. Potrebbe essere un uomo o una donna. Comunque non mi alzo. Potrebbe essere un giovane o un vecchio. Potrebbe essere un neonato, anche, inerpicato su di un passeggino, in dissennato equilibrio per raggiungere il pulsante del campanello. Magari un neonato abbandonato, esposto nella notte e sopravvissuto ai branchi di lupi. Comunque non mi alzo. Sarebbe una brutta storia, però. E, in questo caso, io sarei veramente una carogna. Forse il neonato è l’esca utilizzata per accedere all’intimità dei miei appartamenti da un gruppo di punk neonazisti satanisti che vogliono cospargersi di marmellata e fare strani riti col mio gatto. Meglio non aprire. In fondo, chi mi dice che non potrebbe attendermi, lì, sull’uscio, come una bottiglia di latte, come un giornale fresco di stampa, il sicario di un qualche narcotrafficante colombiano col naso storto, che mi ha scambiato per quell’omonimo farabutto che vent’anni fa gli ha bruciato la casa ed è scappato con sua nonna? In questi casi, piedi di piombo, meglio non rischiare, non uscire di casa per sette anni. Io sono sordo, ecco. Un invalido di guerra. Un monaco di clausura.
E se fosse il padre che non ho mai conosciuto? La scelta è ardua. Quante cose, dietro uno squillo. Del resto potrebbe essere pure la zia che non ho mai conosciuto, con tutto un suo rituale lezioso di pasticcini alla crema e il fiato che sa in modo articolato di compost, o peggio la suocera mai avuta, madre di una moglie mai sognata, ma incarnazioni entrambe di Medusa o di un’amazzone dallo sguardo castrante. Ma mettiamo pure che al mio aprire la porta si palesi un uomo comune, dal sorriso schietto e sincero: chi mi assicura che io non stia dando ricetto a un lupo mannaro, a un serial killer, a un extraterrestre pianificatore meticoloso della rivoluzione (che, per motivi oscuri del cosmo, deve principiare proprio da casa mia) che in un folle giro di vite apocalittico e visionario mi spinga ad autoproclamarmi dittatore del proletariato galattico, oscuro signore del materialismo dialettico interplanetario? In questo caso, non aprendo la porta, impedirei un’invasione aliena col principio del minimo sforzo. Diventerei pater patriæ d’ufficio, meriterei un monumento equestre, dovrei essere incensato e fatto papa. Allora, per un eccesso di sfrenata libido religiosa, ma anche per fedeltà alle nostre radici culturali, renderei obbligatoria la messa in protoindeuropeo, creerei il mille per mille e con tali fondi organizzerei una nuova militia Christi antimassonica per la conquista dell’Europa; abrogherei la legge Basaglia e infarcirei gli istituti psichiatrici di filosofi francesi. Costringerei Margherita Hack a dimostrare che l’universo è finito e che ha centro geometrico nel mio salotto, e che gli alieni ci sono, sì, ma ovviamente sono tutti omosessuali e quindi privati dell’ascesi mistica. Va bene, ma freniamoci un momento.
E se al campanello non rispondesse nessuno? Niente, solo un filo tagliente di assoluto silenzio. Silenzio che forse, arrischiamo un’ipotesi, è il suono che utilizzano i morti per rispondere ai campanelli dei vivi. Cosa dire, allora, a un morto che suona alla porta? Rimarrei imbarazzato, forse scambierei il suo silenzio per timidezza, per un uguale imbarazzo. Il particolare stato muto e meditativo di due uomini che sono fianco a fianco in un bagno pubblico. Ma non dovrei prendere per vuoto un silenzio che potrebbe essere pieno di universo, forse il culmine stesso delle possibilità del linguaggio che si dispiega sulla vita. Allora quante parole, in quel mutismo di fili elettrici! Quanti ammonimenti, e consigli, e spiegazioni; quante pacche sulla spalla, quanti abbracci impalpabili, e forse pure, in ultimo, quante risate sulle cose, sulla loro storia, e ragionata e insensata bibliografia.
Incomincio a pensare che tutte le volte che al campanello non c’è nessuno, è probabile che un morto, un amico di vento, sia passato di lì, e abbia cercato di spiegarmi, aggrottando le ciglia, sudando un po’, fregandosi le mani, secondo lui, che cos’è stata la vita.

JFN

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