Lapisvedese

Le riforme sanitarie fanno male alla salute

Posted in #02 Epidemia by Lapisvedese on 31 luglio 2009

«Health care reforms have been one of the worldwide epidemics of the 1990s».
Rudolf Klein, 1995

Sovvertire il linguaggio corrente, tanto più quello scientifico, ha talvolta il potere di svelare ciò che – più o meno intenzionalmente – è tenuto nascosto. Epidemia, in termini strettamente medici, indica una situazione in cui più casi di malattia si presentano nella popolazione in un determinato periodo di tempo, a condizione che essi siano riconducibili ad una stessa origine. Ma i significati impliciti del termine – tanto per i professionisti sanitari quanto per il senso comune – comprendono accezioni quali imprevedibilità, catastrofe, minaccia, incontrollabilità. In ogni caso si rimanda a un qualcosa di “naturale”, da cui l’uomo deve difendersi ma che non può nulla per influenzare nel suo comparire ed evolvere. Le malattie infettive, quelle appunto che si diffondono in epidemie o pandemie, sono per antonomasia il prototipo della malattia intesa come altro dal corpo, agente esterno che penetra, invade e prolifera, ammalando e uccidendo.
Rudolf Klein, noto epidemiologo britannico, ha affermato che tra le peggiori epidemie globali degli anni ’90 vi è quella delle riforme dei sistemi sanitari. Frase in apparenza paradossale, attribuisce un concetto naturale ed “esterno” a precise intenzioni ed azioni dell’uomo, e per di più azioni indirizzate – per lo meno nella costruzione del discorso ufficiale – a migliorare le condizioni di salute della popolazione attraverso interventi di trasformazione dei sistemi sanitari.
L’epoca delle riforme a cui Klein si riferisce è l’epoca dell’ascesa, incontrastata o quasi, dell’ideologia neoliberista. L’epoca in cui il binomio Reagan-Tatcher ha radicato e portato avanti nel mondo occidentale le prescrizioni del credo capitalista, le cui ripercussioni sono state tanto più impattanti e violente nei paesi del Sud del mondo. Tra le ricette economiche in voga per “risanare” le economie mondiali e promuovere la crescita e lo sviluppo (?), proposte/imposte senza reale possibilità di negoziazione ai Paesi soggetti al debito estero, vi è in primis la riduzione della spesa pubblica e la privatizzazione dei servizi. Come è noto, l’ambito sanitario costituisce una delle prime voci di spesa degli Stati, ed è quindi stato quello in cui si sono concentrate le attenzioni dei premurosi consulenti internazionali, principalmente facenti capo a Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Sotto il falsamente e ipocritamente asettico nome di “Piani di Aggiustamento Strutturale” sono stati letteralmente, pezzo a pezzo, smantellati sistemi sanitari faticosamente costruiti da diversi paesi dell’Africa sub-sahariana: ad esempio la Tanzania, che sotto il socialismo panafricanista di Nyerere e con l’appoggio dei Paesi non allineati aveva provato a seguire una linea diversa, di forte impegno governativo a favore della popolazione autoctona. Uno ad uno, i governi africani, già di loro fragili, spesso corrotti e con poca legittimità interna, sono stati piegati da patti bilaterali o multilaterali sotto il giogo della riduzione a qualunque costo della spesa pubblica, pena il taglio drastico degli aiuti e dei programmi di riduzione del debito estero. La maschera sorridente che prometteva in cambio Sviluppo e Prosperità non ha mai convinto nessuno, ma tant’è. Chi comunque doveva e poteva trarne profitto, dalle imprese multinazionali, ai governi del Nord, ai certamente poco scrupolosi amministratori degli stessi Paesi indebitati, lo ha fatto probabilmente senza credere nemmeno ad una delle parole che hanno riempito policy statements, impact analysis, progress reports e altre amenità analoghe.
Dal punto di vista della sanità pubblica, espropriata in fasce del suo ruolo sociale che faceva dire al patologo tedesco Rudolph Virchow nel 1848: «La medicina è una scienza sociale, e la politica è medicina su larga scala», si è avviato in quella decade infausta un processo di progressiva sterilizzazione riduzionistica e depoliticizzazione. Tutto ciò che era fino a poco prima considerato valore fondante (salute come diritto, universalità di accesso alle cure, equità e lotta alle disuguaglianze ecc.) è stato tacciato dapprima di utopismo, e in seguito di comunismo. Antiscienza il primo, spuria commistione ideologica di interessi e ambiti il secondo. Ma di scienza, prove ed evidenze mancava decisamente anche l’approccio spacciato per tecnica purificata, universalmente valida, prodotto del fior fiore dell’intellighenzia econo-medica occidentale. E di coscienza non parliamone, visto che, sulla pelle delle persone, vendeva l’ipocrisia di un libero mercato contraddetto sistematicamente nelle pratiche con cui gli stessi Paesi alfieri del neoliberismo stavano da tempo difendendo i propri mercati nazionali (ne sono un indecente esempio, a tutt’oggi, i sussidi europei all’agricoltura).
Il gioco però non poteva restare coperto per sempre: la medicina è una strana arte, svela fallimenti e successi sui corpi, meglio nei corpi, delle persone. A volte l’impatto è acuto, più spesso una diagnosi mancata, una terapia impropria, un ritardo nell’agire determinano conseguenze che si palesano nel tempo. Così è stato per l’impatto delle famigerate riforme sanitarie, il cui esito – sebbene facilmente prevedibile sulla base delle evidenze accumulate e della nostra stessa storia di Paesi occidentali – ad un certo punto non è stato più occultabile. Peggioramento degli indicatori di salute, disuguaglianze crescenti tra la popolazione, destrutturazione e delegittimazione dei sistemi sanitari, crisi irreversibile della governance degli amministratori locali. Chi ancora si sforza di attribuire tutto ciò esclusivamente a responsabilità dei governi dei Paesi poveri (qualcuno lo chiamerebbe victim blaming), oppure a cause “naturali” come la pandemia di HIV/AIDS (che certamente c’è stata e c’è, ma guarda caso concentrata proprio in quei Paesi che, a causa del pesante indebitamento e della dipendenza dagli “aiuti”, hanno avuto meno possibilità di difendere la salute delle proprie popolazioni), si colloca in una posizione indifendibile sul piano scientifico ed umano.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dedicato il rapporto annuale del 2008 (World Health Report 2008) alla Primary Health Care (PHC), ovvero la strategia per ottenere salute e un equo accesso alle cure delineata nel 1978 dai Ministri della Sanità di quasi tutti i Paesi mondiali nella Conferenza di Alma Ata (e da allora sistematicamente disattesa…). Per l’esattezza, il rapporto si chiama Primary Health Care: Now More Than Ever. Come dire: avevamo ragione allora, tutto ciò che c’è stato nel mezzo è stato frutto di una distorsione, dell’ingresso di interessi indebiti (quali quelli del mercato e del profitto). La svalutazione pseudoscientifica di quell’approccio è un falso storico non più accettabile.
La PHC è radicata nella definizione ampia di salute che l’OMS ha come fondamento: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la mera assenza di malattia o di infermità». È quindi un’attenzione alla salute integrata, strettamente connessa alla promozione globale del benessere socio-economico delle comunità, non svincolabile da una loro progressiva riappropriazione della capacità di tutelarsi e autodeterminarsi. Fortemente sbilanciata sul binomio prevenzione/promozione, ci parla di persone e salute prima che di pazienti e malattie. Individua nel rafforzamento delle risorse e dei beni essenziali (inclusi i diritti umani) delle società e dei singoli il punto cruciale per il miglioramento della salute per tutti. Ci parla, insomma, di giustizia sociale, sia all’interno che tra gli Stati.
Il cerchio si chiude: le riforme sanitarie, atto politico ed economico, sono state un’epidemia globale. L’antidoto, il rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici mediante la PHC, è un atto politico e di sanità pubblica che ha come pregevole effetto collaterale quello non solo di difendere dalle epidemie, ma di promuovere la salute come processo e prodotto integrato del benessere e dell’autodeterminazione dei popoli. Nelle parole di Geoffrey Rose: «I più importanti determinanti di malattia sono principalmente economici e sociali, pertanto le soluzioni devono essere economiche e sociali. La medicina e la politica non possono e non devono essere separate». Spetta agli operatori sanitari in primis, e di conseguenza alla società civile tutta, difendere con forza questo principio.

CB

Lascia un commento